07/04/2020

Al centro del dibattito di questi giorni vi è anche il tema relativo alla qualificazione della malattia da COVID-19 come infortunio sul lavoro a causa virulenta. Ci può spiegare per quali categorie di lavoratori è previsto?

Maria Giovannone: L’art. 42, comma 2, del D.L. n. 18/2020 ha disposto che nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) contratta in occasione di lavoro, il medico certificatore rediga il consueto certificato di infortunio e lo invii telematicamente all’INAIL che deve assicurare la relativa tutela dell’infortunato. È stato altresì precisato che le prestazioni INAIL, nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro, debbano essere erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato, con la conseguente astensione dal lavoro. Le disposizioni dell’articolo 42 si applicano ai datori di lavoro pubblici e privati.

Dal dato normativo emerge dunque l’equiparazione tra i casi accertati di contagio da COVID-19 in occasione di lavoro e l’infortunio sul lavoro, con conseguente diritto alle prestazioni erogate dall’INAIL.

Precisamente, la tutela INAIL nei casi di infezione da nuovo Coronavirus copre l’assenza lavorativa dovuta a quarantena o isolamento domiciliare fiduciario per l’intero periodo, nonché quello eventualmente successivo, dovuto a prolungamento di malattia che determini una inabilità temporanea assoluta.

Per usufruire delle prestazioni dell’Istituto, è necessario che il medico compili un certificato di infortunio e lo invii telematicamente all’INAIL.

A riguardo, all’articolo 26 comma 6 del D.L. n. 18/2020 il Legislatore ha precisato che, in caso di malattia accertata da COVID-19 del lavoratore, il certificato sia redatto dal medico curante nelle consuete modalità telematiche, senza necessità di alcun provvedimento da parte dell’operatore di sanità pubblica.

Inoltre, per l’indennizzabilità da parte dell’INAIL delle conseguenze lesive dell’integrità psicofisica causate dall’infezione da coronavirus, trovano applicazione le disposizioni del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, alla stregua delle quali, per essere indennizzabile, la malattia-infortunio deve costituire una conseguenza dell’esposizione del soggetto infortunato a un determinato rischio professionale.

Riguardo alla sfera soggettiva, è necessario chiarire in quali fattispecie possa ritenersi sussistente la presunzione di origine professionale.

Per quanto riguarda la trattazione dei casi di COVID-19 del personale sanitario dipendente, l’INAIL, nella nota del 17 marzo 2020, ha specificato che medici, infermieri e gli altri operatori sanitari di strutture pubbliche e private hanno diritto alle prestazioni dell’Istituto assicuratore anche quando l’identificazione della causa del contagio si presenti problematica.

Per i lavoratori diversi dagli operatori sanitari, quelli con frequenti contatti con il pubblico nonché per che abbiano avuto contatti con un collega di lavoro positivo o sintomatico, ritengo che l’origine professionale dell’infezione debba essere ritenuta provata in presenza di fonte di contagio accertata.

Inoltre, per tutti i casi di lavoratori che abbiano contratto l’infezione e che abbiano utilizzato i mezzi di trasporto pubblico, sembra possa ritenersi applicabile la presunzione semplice di origine professionale, sempre che venga comprovato l’utilizzo degli stessi come necessitati. D’altra parte, potrebbero anche rientrare nei c.d. infortuni in itinere anche i casi d’infezione da COVID-19 contratti nei percorsi casa lavoro con un mezzo privato. Infatti, alla luce dei suggerimenti delle Istituzioni sui comportamenti da tenere per contrastare e contenere il diffondersi del coronavirus, l’utilizzo del mezzo di trasporto privato potrebbe ritenersi necessitato.

Al riguardo resta comunque auspicabile un intervento chiarificatore da parte delle Istituzioni o della prassi amministrativa.

Il dibattitto sulla gestione dell’emergenza ha inevitabilmente investito i lavoratori e le parti sociali, come testimonia il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 14 marzo 2020. Per le aziende questo protocollo, a cui si fa riferimento anche nel DPCM del 22 marzo 2020, ha un valore cogente? E a suo parere si potrebbero configurare i presupposti per una astensione collettiva o individuale dei lavoratori, dallo svolgimento della prestazione, ove non siano fornite le giuste tutele? 

M.G.: Considerati i valori costituzionali in gioco, era inevitabile che il dibattito coinvolgesse anzitutto le Parti sociali e, a tal proposito, l‘adozione del Protocollo interconfederale (come dei protocolli di categoria che pure si stanno sottoscrivendo in alcuni settori) è una importante manifestazione di quelle pratiche di concertazione e dialogo sociale di cui il nostro Paese ha bisogno, non solo in tempi di emergenza. Ciò detto, una delle prime osservazioni mosse in questi giorni, nei confronti del Protocollo, è proprio quella relativa alla sua cogenza. Non dobbiamo infatti dimenticare che, in quanto manifestazione dell’autonomia negoziale interconfederale, il protocollo, come tutti i contratti collettivi, non ha efficacia erga omnes, quindi non è un atto generalmente cogente, ma efficace tra i soggetti che lo hanno sottoscritto. Tuttavia, ove tale atto venga recepito materialmente in provvedimenti o procedure adottate a livello aziendale o territoriale, vincolando le parti al suo rispetto, la sua cogenza potrebbe dunque espandersi e, specularmente, la sua inosservanza potrebbe essere fonte di responsabilità e di applicazione di eventuali sanzioni.

Quanto ai profili di astensione dalla prestazione lavorativa, poi, è chiaro come l’importanza dei valori in gioco – la vita, la salute (pubblica e privata), il lavoro, la libertà di iniziativa economica – e la difficoltà di bilanciamento tra gli stessi, specie nella fase di progressiva definizione dei settori da sospendere e di quelli essenziali, abbia agitato, in determinati comparti, il “vento dello sciopero”. Al riguardo, non vi è dubbio che, in punto di diritto, una astensione collettiva dalla prestazione lavorativa, avrebbe potuto legittimamente configurarsi; tuttavia, da un punto di vista fattuale, credo che questo più che il momento del conflitto, sia il momento del dialogo e della concertazione proattiva nella ricerca di soluzioni condivise. A confermarcelo, in fin dei conti, è lo stesso esito delle trattative tra le Parti sociali, avvenute sotto la regia del Governo.

Per quanto riguarda invece, l’astensione individuale dalla prestazione lavorativa da parte del lavoratore, è opportuno distinguere due ipotesi.

La prima è quella in cui, a causa della pandemia, il lavoratore si trovi a fronte di un pericolo grave ed immediato (di per sé non sempre facile da dimostrare). Non vi è dubbio che in tale ipotesi, al lavoratore si possano applicarsi le tutele e le prerogative di cui agli artt. 43, comma 4, e 44 del Testo Unico Sicurezza. La seconda ipotesi, è invece quella in cui, pur in assenza delle condizioni di pericolo grave ed immediato di cui alle predette disposizioni, il lavoratore sia costretto a tornare a lavoro in assenza delle necessarie cautele prevenzionistiche di legge (dotazione di DPI, sanificazione degli ambienti, adozione di idonei protocolli, etc…); in tal caso, pur non potendosi ricorrere direttamente alle previsioni degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 81/2008, si potrebbe comunque configurare un legittimo rifiuto dello stesso allo svolgimento della prestazione, come la stessa giurisprudenza di legittimità conferma; ciò sulla base della eccezione di inadempimento che il lavoratore potrebbe sollevare nei confronti del datore di lavoro che violi le obbligazioni sullo stesso gravanti ex art. 2087 c.c. (cfr. Cass., n. 836/2016; Cass., n. 6631/2015; Cass. n. 12725/2013; Cass., n. 14375/2012; Cass. n. 11664/2006; Cass., n. 9576/2005).

Già nel 2009, lei si è occupata di pandemie influenzali e ambienti di lavoro con riferimento all’emergenza della influenza pandemica AH1N1v. Mi pare che anche in quel caso emergesse una sottovalutazione dell’impatto dei rischi sulla salute e sull’intera organizzazione del lavoro e una difficoltà nel coordinamento dei comportamenti e delle azioni da mettere in campo. Cosa possiamo imparare, per il futuro del mondo del lavoro, dall’emergenza COVID-19? 

M.G.: Sì, in effetti in tempi non sospetti e nel corso dei miei studi per il conseguimento del titolo di Dottore di Ricerca in Diritto del Lavoro presso l’Università di Modena ed pochi mesi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 106/2009, ebbi modo di occuparmi di questa complessa tematica (cfr. M. Giovannone, M. Tiraboschi, Pandemia influenzale e ambienti di lavoro: tutela della salute pubblica e impatto sulla organizzazione del lavoro, in Bollettino Speciale ADAPT del 6 ottobre 2009).

Anche allora, sebbene ci trovassimo di fronte ad una problematica di minore portata - sia in termini di gravità che di estensione territoriale - rispetto a quelle del COVID-19, ebbi modo di sottolineare come alla luce del Testo Unico Sicurezza (artt. 28 e 29), il DVR è assurto sempre più al ruolo di strumento dinamico di prevenzione, non cristallizzato sui rischi già noti e censiti, ma sempre aperto alla integrazione ed alla gestione dei cosiddetti “nuovi rischi”, anche di quelli meramente contingenti o stagionali, tra cui una pandemia può rientrare. Proprio a tal riguardo, ritengo infatti poco condivisibile la tesi sostenuta da coloro che hanno rigettato tout court la opportunità di operare una qualsivoglia valutazione del rischio COVID-19 negli ambienti di lavoro esclusi dal campo di applicazione del Titolo X del Testo Unico, partendo dalla configurazione dello stesso come un mero “rischio esogeno”.

Infatti, se è vero che il rischio da COVID-19 nasce come esterno a specifiche lavorazioni, dunque esogeno poiché relativo all’intera popolazione e non a specifici settori o lavorazioni, nel momento in cui esso entra nei luoghi di lavoro e diventa oggetto di una modificazione dell’attività produttiva oltre che della organizzazione del lavoro, lo stesso diventa in qualche misura integrato e prevedibile nell’attività produttiva, dunque endogeno, seppur temporaneamente e in modo contingente alla durata della pandemia stessa.

Inoltre, pur volendo continuare a configurarlo come esogeno, è importante ricordare come la stessa giurisprudenza in materia di rischi esogeni, sebbene con riferimento a diverse fattispecie, è consolidata nel ritenere che “L’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l’adozione non solo di misure di tipo igienico sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell’ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività, pur se allo stesso non collegate direttamente […], in relazione alla frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese ed alla probabilità del verificarsi del relativo rischio, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al dpr. n. 1124 del 1965 e giustificandosi l’interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua del rilievo costituzionale del diritto alla salute che dei principi di correttezza e buona fede” (cfr. Cass. n. 4012/1998).

Si tratta di norme che, anche alla luce della loro congenita ratio, prestano il fianco ad una più sistematica interpretazione delle stesse raccomandazioni fornite dalle istituzioni in tempo di emergenza e sulla base della cui precettività si potrebbe procedere ad una implementazione condivisa di linee guida funzionali alla concreta individuazione, da parte del mondo produttivo, delle misure organizzative idonee e veramente necessarie per una prevenzione effettiva, scevra da sbavature allarmistiche.

Ciò considerato che, al fine di una maggiore effettività e di una contestualizzazione delle specifiche misure rispetto al singolo settore, è necessario fornire supporto agli addetti ai lavori nella puntuale delineazione dei compiti e delle attività dei singoli attori della sicurezza, dai datori di lavoro, dirigenti e lavoratori, sino ai medici competenti, i cui protocolli rappresentano in tale ottica uno snodo centrale.

Dunque ora, proprio come allora, penso ancora che, anche con riferimento alla gestione degli adempimenti prevenzionistici, ci troviamo di fronte ad una grandissima sfida; anzitutto nel campo medico-scientifico, in cui si devono trovare rimedi farmacologici idonei a sconfiggere il virus e della cui scoperta, anche la tutela della sicurezza sul lavoro si beneficerà certamente. La sfida, però, investe anche le tecniche di politica legislativa e di concertazione - a livello sindacale ed aziendale - delle soluzioni di valutazione, gestione e mitigazione del rischio e, al contempo di rafforzamento delle capacità di predizione di tali eventi e di resilienza di fronte ai prossimi che si verificheranno. Tutto ciò, anche per meglio accompagnare la complessa quanto auspicata fase del rientro in attività.

Link al documento “Pandemia influenzale e ambienti di lavoro: tutela della salute pubblica e impatto sulla organizzazione del lavoro”.

Fonte: PUNTO SICURO

Intervista a cura di Tiziano Menduto