07/04/2020

Responsabilità dei datori di lavoro. Tra i nodi più problematici di questo periodo vi sono sicuramente quello relativo all’eventuale aggiornamento del DVR e quello relativo alla dotazione di DPI.

Maria Giovannone: Come noto a tutti gli addetti ai lavori, la valutazione del rischio e la dotazione degli idonei DPI ai lavoratori, sono due capisaldi del nostro ordinario sistema prevenzionistico, come delineato dal Testo Unico Sicurezza; istituti che rispondono a norme generali con cui vanno opportunamente e cautamente coordinate le disposizioni speciali adottate nel corso dell’emergenza COVID-19 attraverso decreti-legge, D.P.C.M. ed ordinanze.

Tra le due, però, la questione relativa al DVR è quella più controversa da un punto di vista tecnico-giuridico, in questo frangente, considerato che sul punto la decretazione d’urgenza non si è pronunciata chiaramente, diversamente da quanto fatto per i DPI. Quella sui DPI lo è forse di più dal punto di vista della burocrazia e della concorrenza nel mercato globale di questi prodotti. Lo dimostra del resto il dibattito nato tra gli esperti in queste settimane.

Infatti, relativamente ai DPI, sin dai primissimi atti europei emergenziali – a partire dal regolamento di esecuzione (UE) 2020/402 che ha stabilito misure straordinarie per garantire l’approvvigionamento relativo ai DPI – si è inteso garantire tanto il repentino rifornimento di tali dispositivi da parte degli Stati membri, quanto la celerità dei controlli di conformità ai requisiti di sicurezza (si veda, a tal proposito, la Raccomandazione (UE) 2020/403). Per il rapido approvvigionamento dei DPI, poi, la Commissione europea ha predisposto, con le decisioni di esecuzione n. 2020/414 e n. 2020/452, la costituzione di scorte attraverso la riserva europea rescEU, e si è adoperata per fornire orientamenti comuni sull’adozione di misure straordinarie, pur previste dall’ordinamento europeo, in diversi ambiti: dalla gestione delle frontiere esterne per l’approvvigionamento dei beni essenziali (si veda la Comunicazione 2020/C 96 I/01) nonché del trasporto aereo per il medesimo scopo (Comunicazione 2020/C 100 I/01), guidando altresì gli Stati membri all’acquisto dei DPI attraverso procedure più snelle nell’ambito degli appalti pubblici (Comunicazione 2020/C 108 I/01).

Dal punto di vista nazionale, poi, è stato in particolare l’art. 16 del D.L. n. 18/2020 a prevedere che, per tutti i lavoratori che nello svolgimento della loro attività siano oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, debbano essere considerati dispositivi di protezione individuale (DPI) le mascherine chirurgiche reperibili in commercio. Dunque, il problema in questo caso, riguarderebbe soprattutto il congestionamento burocratico inerente alle procedure di certificazione richieste, riguardanti tanto l’INAIL quanto l’ISS, per la produzione interna delle due macro-tipologie di mascherine oggi necessarie: quelle professionali (vale a dire le ormai note Ffp2 e Ffp3) e quelle chirurgiche. Come si può leggere da vari organi di stampa, pare che presso gli istituti direttamente coinvolti pervengano, quotidianamente, centinaia di richieste di certificazione, da parte di piccoli artigiani e grandi aziende, alle cui istanze è obbligatorio dare risposta, poiché inviate tramite posta certificata. Questo fenomeno sarebbe dunque alla base di uno stallo burocratico, data anche l’impossibilità di garantire un filtro preliminare tra richieste più e meno qualificate (anche per via del parallelo, necessario ricorso allo smart working da parte di chi ha il compito di occuparsi della valutazione delle stesse). Se a ciò si aggiunge anche l’ulteriore passaggio richiesto qualora non si disponga di materiali già certificati (e dunque pronti per essere trasformati in mascherine), volto alla certificazione di un tessuto che sia compatibile ai prerequisiti imposti, i tempi delle procedure non possono che allungarsi ulteriormente, e la soluzione più rapida, dato lo stato di emergenza attuale, rimane l’acquisto di mascherine dall’estero.

Quanto al DVR, mi sento di suggerire agli operatori un approccio prudenziale e per gradi. Più in particolare, con riferimento ai settori normalmente esposti al rischio biologico e quindi ricadenti nell’ambito di applicazione del Titolo X del TU Sicurezza, ritengo sia necessario provvedere ad un aggiornamento della valutazione dei rischi e, di conseguenza, del DVR, secondo le regole contemplate dallo stesso Titolo X.

Al di fuori di quelle attività in cui l’esposizione al rischio biologico, ancorché accidentale è maggiore, ritengo che siano sottratte al campo di applicazione del Titolo X le organizzazioni produttive caratterizzate da un rischio biologico di tipo generico, ovvero del tutto assimilabile a quello cui è esposta la popolazione non lavorativa, ricorrendo in questo caso il classico “rischio da contatto accidentale aggravato”. Ciò non esclude, però, per le attività che esulano dall’ambito di applicazione del Titolo X, che si debba dare corso ad un dinamico aggiornamento della valutazione del rischio pandemia, secondo le regole più generali di cui agli artt. 15, 28 e 29 del TU Sicurezza, oltre che dell’art. 2087 c.c. In tal senso, del resto, pare si possa argomentare quantomeno indirettamente leggendo le battute finali della nota dell’INL del 13 marzo 2020, volta a fornire chiarimenti sul tema.

Proprio alla luce delle disposizioni sopra richiamate, infatti, va a mio avviso letta la prescrizione fatta dal DPCM 11 marzo 2020, di assumere protocolli di sicurezza anti-contagio che, molte aziende stanno poi materialmente traducendo nella adozione di documenti allegati al DVR, sotto forma di addendum, ispirati a loro volta ai contenuti del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto tra le Parti sociali il 14 marzo 2020.

Sia chiaro, però, quanto appena detto, non significa che i DVR attualmente in possesso delle aziende siano da “buttar via”, ma che, nell’ottica di tutelare al meglio le nostre aziende e gli stessi lavoratori che continuano ad operarvi in tempo di emergenza, sia opportuno integrare detti documenti con appositi addendum che, di fatto ed anche in base alla luce del principio di effettività che informa tuta la materia, andranno a costituire un sostanziale aggiornamento della valutazione dei rischi correlato a quelle modifiche all’organizzazione del lavoro che la pandemia impone e che l’art. 29 prescrive.

Tale operazione, peraltro, si renderebbe tanto più opportuna alla luce del fatto che l’art. 42, co. 2, del d.l. Cura Italia (d.l. n. 18/2020), ha equiparato l’infezione da coronavirus, contratta in occasione di lavoro, ad infortunio sul lavoro per causa virulenta, prevedendo l’accesso dell’infortunato alla tutela INAIL, ai sensi delle vigenti disposizioni. Una disposizione opportuna che, a mio avviso, lascia anche presagire l’emersione di possibili futuri contenziosi volti a far valere articolate rivendicazioni nei confronti di aziende operanti nei più svariati settori, che abbiano omesso di valutare e prevenire il rischio compiutamente.

Peraltro, anche ai fini di una corretta ed efficace attuazione del Modello di Organizzazione e Gestione, di cui l’azienda fosse eventualmente dotata ai fini esimenti della responsabilità dell’ente, per omicidio colposo o lesioni colpose dovute all’inosservanza delle norme antinfortunistiche; una siffatta operazione di aggiornamento sarebbe in ogni caso auspicabile per una migliore tutela processuale dell’azienda stessa oltre che per la migliore protezione dei lavoratori.

Fonte: PUNTO SICURO

Intervista a cura di Tiziano Menduto